LANGU KOLA KAYAK EXPEDITION (I° Parte: il trekking)

Ciao ragazzi, ecco la prima parte della spedizione in Nepal effettuata dal ZeroAmbassador Francesco salvato.

buona lettura e buon viaggio.

enricolazZAmbassador

 

5 settembre 2012

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E’ il mio compleanno, un compleanno importante dove il mezzo secolo di vita  immancabilmente mi ha portato a ripensare a tante esperienze e a quante di queste sul mio kayak. Sport, passione, lavoro che tanto hanno dato alla mia esistenza. Da queste riflessioni non poteva che nascere un progetto.

Originariamente l’idea era di tornare in Nepal, che rimane il mio paese preferito, per completare il Karnali, il fiume che più di ogni altro è parte di me, del quale ho effettuato la seconda ripetizione assoluta nel ‘93 e la prima, ed al momento unica, discesa in solitaria nel ’99. L’idea era quella di scendere dalle sorgenti poste alle pendici del monte Kailash in Tibet, montagna sacra per induisti e buddisti e considerata epicentro del mondo e collegamento tra la terra ed il cielo. Avremmo dovuto poi rientrare in Nepal ed effettuare la discesa dell’upper canyon sopra l’imbarco classico di Simikot, ma la burocrazia Cinese non consente il passaggio delle frontiere via fiume e quindi abbiamo dovuto  dirottare su un altro progetto.

Ron a quel punto ha proposto la Dolpo kayak Expedition, un concatenamento che consente di vivere il paese più “verticale” al mondo nel modo più intenso possibile. I fiumi che ci permettono questo sono il Langu Kola, il Mugu Karnali ed l’Humla Karnali che da quasi 5000 mt ci porteranno ai 190 mt della pianura indiana. Nel ’99 una spedizione americana guidata dal grande esploratore fluviale  Kurt Casey aveva già tentato questo viaggio, ma la discesa si era interrotta all’inizio del Mugu karnali ed i due canyon più isolati del Langu erano stati aggirati via terra,  Kurt racconta di questa come una delle discese più belle che abbia mai fatto e se lo dice lui, ci crediamo!

Il gruppo nasce da chiacchere, coincidenza di compleanni e inviti più o meno espliciti durante la Kanu Messe 2011 ed ecco la formazione: Francesco Salvato (Italia), Ron Fischer ( Svizzera),  Raphael Thiebaut (Francia),  Stephane Pion ( Francia) e Jakub Sedivy ( Repubblica Ceca) un gruppo internazionale con un range di età di 24 anni e sulle spalle una esperienza canoistica di 112 anni.

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I mesi precedenti alla partenza sono stati molto travagliati, un’infiammazione al tendine del sovraspinato della spalla destra mi ha costretto al riposo e ad un via crucis di visite e terapie inconcludenti.  Il risultato è stato quello che non sono riuscito a pagaiare come e dove volevo per potermi allenare nel migliore dei modi. A 10 giorni dalla partenza ero quasi deciso a non partire, poi non ce l’ho fatta a rinunciare al viaggio e quindi ho deciso di partire con l’incognita della spalla, consapevole di non avere  una preparazione adeguata.

 

La partenza

Il 22 ottobre  arrivo a Kathamdu dove ritrovo gli odori i suoni i colori del Nepal  che tanto amo e che tanto mi riempiono il cuore. Sono passati 11 anni dall’ultima volta che sono stato qui ma mi sembra siano passati pochi giorni.

Raphael e Stephane sono qui da qualche giorno a  sbrigare tutte le faccende burocratiche per i permessi, gli accordi con i portatori e l’acquisto del cibo e dell’attrezzatura  necessaria per il viaggio. Abbiamo i giorni contati quindi vivo Kathmandu solo per il tempo di una birra al Tom e Jerry ed il giorno dopo ci spostiamo a Pokara, il giorno dopo ancora a Beni risalendo il Kali Gandaki. Il giorno dopo, un rocambolesco  local bus in 8 ore ci permette di percorrere i 70 km che ci separano da Jomson, ultimo paese raggiungibile via strada e punto di partenza per inoltrarsi nelle regioni del Mustang e dell’Upper Dolpo.

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Il vento freddo ci colpisce i  volti, l’aria è secca ed il cielo limpido, come pulito per un giorno di festa. Bandiere tibetane sventolano all’impazzata felici del loro movimento che diventa preghiera che vola nel mondo.

Sopra Jomson, il Tilgri ed il Tilcho con il loro 7000 metri ci avvolgono ricordandoci che siamo in Himalaya. Qui troviamo i portatori che sono arrivati da  Kathmandu un giorno prima di noi. Sono 8 più la guida, sono Sherpa originari dalla regione del Solo Kumbu, ai piedi dell’Everest. Li abbiamo scelti Sherpa perchè sono gli unici abituati ai carichi delle spedizioni alpinistiche, sono forti, affidabili, gentili e sempre orgogliosi di essere parte di una spedizione e di fare il loro lavoro al meglio. Dorgee sherpa, la nostra guida, è un ometto di 45 anni con una faccia dolce da  bambino sempre con un sorriso sulle labbra. Ha avuto il privilegio di salire l’Everest e quando ci racconta della salita il suo sguardo si illumina ed esprime tutto l’orgoglio e  la profonda felicita di essere stato sul tetto del suo paese e del mondo.

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26 ottobre: trek giorno 1

All’alba quando ancora la valle del Kali Gandaki è avvolta nell’ombra e solo le punte del Tilcho sono illuminate, prepariamo i carichi, stiviamo tutto dentro i kayak, qualche gerla e i nostri zaini: il risultato è un carico per i portatori di circa 45 kg e di 15kg per le nostre spalle occidentali. Fissiamo le cinghie sui kayak e con un’alchimia di equilibrio i portatori se le caricano sulle spalle sostenendo il carico con una cinghia che passa sulla fronte.

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Usciamo da Jomson come in passerella assaporando il momento della vera nascita del nostro progetto. Il cielo è di un blu che cattura l’anima e avvolge lo spirito, il Kali Gandaki è  un placido ruscello serpeggiante diviso in molti rami che faticosamente ricercano la via della gravità,  è la calma prima della tempesta quando le sue acqua precipiteranno nella furia  del tratto di Larjung e nella gola più profonda al mondo protetta dai due colossi di 8000 metri dell’Anapurna e del Dhaulagiri.

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Lasciamo la valle del Kali Gandaki a Kagbeni e ci inoltriamo del Dolpo. Ci aspettano 9 giorni di trekking, forse uno dei più impegnativi del Nepal, 5600 metri di dislivello in salita e 4150 in discesa con 3 passi sopra i 5000 metri con il più alto a 5650. Siamo preoccupati perché nessuno di noi  è abituato alla quota e nessuno ha avuto la possibilità di allenarsi in modo specifico.

Il primo giorno è tranquillo  facciamo 500 metri di dislivello. Piano piano prendiamo confidenza con il ritmo del cammino, il peso degli zaini, il passo dei portatori, siamo felici. Dormiamo nel bellissimo villaggio di Dhagarjun con  i tetti cosparsi di  centinaia di bandiere sventolanti che sembrano coriandoli spinti dal vento.

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27 ottobre trek giorno 2

Sveglia all’alba. Colazione con due uova strapazzate e due “ciapati” ( una specie di piadina) e alle 7 siamo già in marcia. Dopo 700 mt di dislivello su pendenze regolari arriviamo al primo passo a poco meno di 4000 mt. I passi per la cultura himalayana assumono un significato del tutto particolare. Permettono il passaggio da una valle all’altra, rappresentano i punti deboli di un territorio selvaggio e duro. I montanari Nepalesi hanno grande rispetto per i passi, consapevoli dell’importanza che hanno nella loro vita.

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Ogni valico diventa un tempio a cielo aperto, non manca mai un Chorten più o meno curato, mucchi di pietre accatastate molte di queste scolpite con Il “om mani padme hum”, bandiere di preghiera che sventolano regalandogli il colore, che spesso vengono fissate sui “chat-dar”, pali decorati con sciarpe e bandiere. Il tutto è accogliente e nei passi si respira un’atmosfera di grande misticismo, di devozione e rispetto per l’ambiente.

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Scendiamo un po’ e poi ancora sù verso i 4300 del Bhima Lojung La, arriviamo alle 13 ancora tutto sommato in forma, decidiamo di aspettare i portatori per fare delle foto. Arrivano dopo 2 ore che noi passiamo fermi al freddo amplificato da un vento tagliente. Mi rendo subito conto che aspettare i portatori è stato un errore, rimanendo troppo tempo alla quota più alta raggiunta  e quando inizio la discesa comincio ad avere i primi sintomi del mal di montagna: emicrania, nausea e una stanchezza profonda che intacca il fisico e lo spirito.

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Cominciamo a scendere sperando che l’abbassamento di quota migliori la situazione ma scendiamo solo una cinquantina di metri di dislivello per poi risalire ancora verso i 4450 del passo successivo. Il sentiero  che taglia trasversalmente il pendio è impegnativo e molto esposto e questo rallenta molto la nostra marcia. Il sentiero continua a seguire i fianchi della montagna superando innumerevoli costoni che costringono  a lunghi aggiramenti e a snervanti saliscendi.

Alle sei  comincia a fare buio,  i portatori non si vedono, rallentati anche loro dalla fatica di una giornata molto pesante. Valutiamo il da farsi, io sto sempre più male e l’unica cosa che voglio e che devo fare è scendere, i ragazzi valutano di dormire qui ma non c’è acqua e la quota di 4100 è troppo pericolosa, io Raphael e Stephane decidiamo di continuare per poter alleviare il mio mal di montagna, Ron e Jakub tornano dai portatori per recuperare i loro sacchi a pelo e del cibo.

Per me comincia una via crucis: divento sempre più stanco e posso solo seguire il passi di Raphael che cerca di incitarmi e mi costringe ad un ritmo regolare e costante. Ogni tanto mi costringo a bere e mangiare qualcosa anche se mi costa moltissima fatica, l’inappetenza è uno dei primi sintomi del mal di montana, lo stomaco si chiude, la nausea diventa pesante e solo il pensiero di ingurgitare qualche cosa fa venire il vomito. Diventa buio ed è quasi un bene perché non vedo il sentiero con tutti i suoi ghirigori e speroni da superare. Cammino come un automa concentrandomi solo sui miei piedi, scendiamo molto lentamente e quindi l’ossigeno aumenta altrettanto lentamente.

Dopo l’ultimo passo si apre una radura più ampia, non si vede nulla ma l’intuito di Raphael indovina che questo dovrebbe essere il luogo dove si trova Sangda il paese dove vogliamo passare la notte. Non si vedono case e solo con una grande fortuna riusciamo a trovare il villaggio, che solo ora ci rendiamo conto essere disabitato.  Stendiamo il telo dietro il muro di una casa e ci infiliamo dentro i sacchi a pelo, quota 3770 con temperatura -5.

Dopo 12 ore di cammino mi distendo dentro al mio sacco a pelo che mi avvolge come una mamma e fortunatamente mi addormento dopo aver faticosamente bevuto l’ultimo sorso d’acqua.

Un paio d’ore dopo sentiamo le urla di Ron e Jakub che ci chiamano, anche loro stanno cercando il villaggio, Raph accende la pila frontale che fa da faro direzionale ai ragazzi.  Sono esausti e dopo averci  raccontato che i portatori si sono a fermati a dormire sotto il passo a 4450, montano la tenda e si infilano nei sacchi a pelo.

28 ottobre trek giorno 3

Al mattino ci sveglia una giornata radiosa, siamo ancora molto stanchi e  senza bisogno di discussioni tutti sappiamo che oggi sarà una giornata di riposo, quindi ce la prediamo comoda, facciamo un’abbondante colazione godendoci il sole. Verso le 11 arrivano i portatori.

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Il villaggio di Sangda è un gruppo di case con i tetti piatti addossate le une alle altre , il villaggio è disabitato, viene abitato solo durante il periodo estivo. Le porte sono sigillate con escrementi di yak per non far entrare la neve. Sembra un villaggio fantasma ma da tutte queste case vuote emana un profondo senso di vita dura ed orgogliosa, la vita dei montanari del mondo.

Facciamo una piccola camminata di acclimatamento e ci riposiamo. Queste giornate di stop sono indispensabili per poter dare il tempo all’organismo di acclimatarsi alla quota. Passiamo il pomeriggio a scrivere, leggere, guardare i portatori che giocano a carte con i loro urletti da  bimbi, le loro facce  sorridenti. Trasmettono  serenità ed una tranquillità profonda. Qualsiasi cosa facciano esprimono armonia con il loro fare, non ci sono mai in loro atteggiamenti di insoddisfazione, noia, rabbia; sono semplicemente sereni. È un piacere osservarli, in tutto quello che fanno, quanto abbiamo da imparare da loro…

 

29 ottobre trek giorno 4

Lasciamo Sangda ancora avvolta nell’ombra, uscendo dal villaggio e scivolando alla sinistra di numerosi “Chorten” allineati lungo i fianchi della montagna come a voler indicare la strada per il paese a proteggere il viandante che si avvicina al villaggio o quello che se ne allontana per continuare il viaggio. Passiamo vicino, sfiorando con la mano destra il Chorten, come a dare una carezza ad una persona cara che ci fa sentire che ci accompagnerà lungo il cammino.

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Dopo un primo tratto in piano, il sentiero taglia i fianchi ripidi delle montagne seguendone le increspature che permettono il cammino. Ci sentiamo piccoli in questi pendii sconfinati, brulli senza alberi, un deserto in quota che ci fa sentire parte del territorio in modo profondo, ogni passo è una scoperta e la fatica diventa il nostro tributo alla bellezza. Camminare in montagna è un’arte, ogni passo una creazione, si appoggia il piede, si percepisce il terreno si ricerca l’equilibrio con alternanza ritmica che diventa una sorta di metronomo del tempo. La fatica di vincere la gravità  permette di aumentare il contatto con il terreno e questo contatto solido e fugace permane dentro di noi. Non c’è tempo e non c’è spazio, c’è solo il passo che stiamo facendo ed il segreto è viverlo appieno, assaporarlo nel profondo, con tutto il suo peso e la sua leggerezza.

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Dopo qualche ora arriviamo al Chalung Kola, un ripido sentiero ci porta al letto del torrente, c’è il sole e dopo 6 giorni decidiamo che è il momento per una toilette. Ci spogliamo nudi e a pezzi ci laviamo in un’acqua gelida che rinvigorisce come una rinascita. Ci godiamo il senso di pulito e di freschezza come se sapessimo già che sarà l’unica per il prossimo mese.

Alle 14 arriviamo al campo di Ghalden Ghualdung Kola che è bellissimo, una terrazza panoramica sull’Upper Dolpo. La vista si snoda sino alla valle del Kali Gandaki e dall’altra parte le montagne del Mustang sono pendii incartapecoriti con tutte le sfumature dei colori della terra: dal giallo chiaro fino all’ocra rossa e su questi colori il bianco della neve che sembra essere lì come disegnata da un bambino. Sedersi e osservare è la cosa più naturale e più piacevole al mondo e la mente vaga senza soffermarsi come a voler inseguire pensieri che diventano nulla e la sensazione che ne nasce è una gran pace.

 

30 ottobre trek giorno 5

Abbiamo deciso per un’altra giornata di riposo, siamo stanchi e domani ci aspetta il giorno più duro del trekking. Decidiamo di mandare i portatori con i kayak fino al primo passo a 5000 metri dove lasceranno le canoe e torneranno al campo in modo da poter salire più leggeri il giorno dopo.

Passiamo la giornata riposando e facendo solo un piccolo trek di un paio di ore per mantenere l’acclimatamento. La sera c’è la luna piena ed il suo sorgere sopra le pendici del mustang ci regala uno spettacolo che solo madre natura può offrire, rimaniamo li a guardarla estasiati e totalmente persi. Infreddoliti ci infiliamo nei sacchi a pelo sapendo che domani ci aspetta la giornata più dura, cerchiamo di riposare anche se il freddo e la preoccupazione rendono la notte agitata.

 

31 ottobre trek giorno 6

Sveglia alle 5,30 infreddoliti dopo una notte a -12, facciamo colazione, smontiamo il campo e prepariamo i carichi in silenzio, siamo tutti consapevoli che oggi tutte le energie devono essere dedicate alla salita.

Alle 7 siamo già in marcia, il sentiero parte subito verticale e ci rompe il fiato come un bastoncino nelle mani di un gigante. Occorre un’ora buona per trovare un ritmo di respiro, cerco di salire piano piano anche se ad ogni passo sento che l’ossigeno diventa più scarso.

Alle 10 siamo al primo passo a 5050 come al solito molto suggestivo ma già guardiamo il sentiero che porta al prossimo passo  a 5650 che sembra lontanissimo ed irraggiungibile. Attraversiamo un torrente semi ghiacciato e poi prendiamo il sentiero che taglia il fianco della montagna in diagonale. E’ una pendenza costante senza cambi di direzione e questo fa sembrare il sentiero lunghissimo.

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Rallento ancora il passo, cercando di trovare un ritmo e mi costringo a salire lentamente ma in modo costante. L’ossigeno diventa sempre più scarso, i polmoni sembrano scoppiare per la mancanza di aria, faccio mezzo passo alla volta fermandomi ogni trenta passi e con la testa appoggiata alle ginocchia cerco di aggrapparmi ad ogni goccia di ossigeno.

Ogni passo costa una fatica enorme che porta ad una sorta di stordimento dove il mondo scompare, esiste solo lo sforzo immane che diventa una specie di droga che mi fa scivolare in una realtà separata, sorprendentemente scopro che mi piace soffrire e capire fino a che punto posso resistere. Cerco di focalizzare la mia mente su pensieri positivi: visualizzo un filo che mi tira verso l’alto; il mio sangue che scorre fluido nelle mie vene pieno di ossigeno; immagino lo scambio di ossigeno a livello alveolare.

Non avevo mai provato un tale stato di sfinimento in vita mia. Ho letto tantissimo libri di montagna e  mi sembra di rivivere i racconti degli alpinisti sopra la  linea degli ottomila metri. Dopo un cambio di direzione del sentiero verso sinistro sollevo lo sguardo ed intravedo uno spicchio di colore che sventola: una bandiera di preghiera e capisco che sto arrivando al passo.

Alle 12,30 dopo 5 ore e mezza sono al passo di Niwar La: 5650 mt. Mi inginocchio a terra davanti al Chorten di pietre, cerco di riempire i polmoni di aria e regalo una preghiera al mondo e agli dei che lo governano. Ron e Raphael sono già arrivati,  subito dopo arriva anche Jakub, Stephan è ancora indietro; Raphael si toglie lo zaino e  torna giù ad aiutarlo. Si mette il suo zaino sulle spalle e lo “traina” fino al passo dove Stephan si distende a terra esprimendo tutta la stanchezza che si porta dentro. Siamo felici consapevoli che questo era uno degli scogli più duri della nostra spedizione. Ma non c’è tempo per goderne, qualche foto e cominciamo subito a scendere  per evitare l’esposizione all’alta quota. Inizia la discesa ma il sentiero ha poca pendenza e l’aria rimane rarefatta.

Mentre scendo comincio a sentire mal di testa e nausea, mi rendo conto che dovrò fare i conti un’altra volta con il mal di montagna e vengo preso dallo sconforto. Sono sfinito e vorrei solo distendermi a terra e riposare ma devo continuare a camminare, perdere quota, scendere, metter un passo dopo l’altro inesorabilmente anche se il mio corpo vorrebbe solo fermarsi. Non sono in grado di far nulla se non pensare a fare il passo successivo. Capisco perfettamente perché gli alpinisti muoiono di sfinimento, perché lasciano morire i compagni, in questo stato non potrei fare assolutamente nulla per aiutare qualcuno .

Cammino come uno zombie fino al campo a 4800 che raggiungiamo alle 17.00 dopo 10 ore di cammino. Raccimolo le ultime energie per montare la tenda e mi infilo dentro al sacco a pelo con la voglia di riposare e la speranza di stare un po’ meglio. Ma continuo ad avere mal di testa, nausea e mi sembra di avere i polmoni schiacciati da un grande peso.

Alle 18 Raphael mi chiama e mi costringe ad andare nella tenda cucina. Faccio un grande sforzo e mi alzo, nei 6 metri quadrati  della tenda ci sono  14 persone. C’è un odore insopportabile di corpi umani e di kerosene, subito mi sento svenire poi trovo un angolino e cerco di respirare l’aria fetida. Non posso mangiare ma Dorgee mi dice “I will made for you a Sherpa medicine”: acqua bollita con dentro una quantità di aglio capace di stendere un bue. La guardo nauseato ma come comincio a sorseggiarla ne sento subito i  benefici, il mal di testa si attenua, la nausea diventa sopportabile e riesco anche a mangiare un po’ di riso bollito.

Alle 19 mi infilo nel sacco a pelo, per una notte  molto fredda dove il termometro toccherà i  -20, benedicendo la  scelta di aver portato il sacco a pelo pesante.


1 novembre: il trekking non finisce mai.

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Al mattino tutto è gelato, anche il fiume che ieri sera ci ha fornito l’acqua, quindi siamo costretti a far sciogliere dei blocchi di  ghiaccio. Mi sento meglio, pronto per un’altra giornata di cammino.

Alle 7 cominciamo la marcia, ansiosi di trovare un po’ di sole che ci scaldi. Lo scenario è straordinario: cielo blu cobalto, qualche vetta innevata come glassata da un pasticciere artista e pendii giallo-ramati che morbidi si dipanano  senza soluzione di continuità. Vorrei sedermi e starmene lì ad osservare il paesaggio come si osserva un’opera d’arte ma dobbiamo proseguire.

Verso mezzo giorno capiamo che sarà un’altra lunga giornata. La valle in cui camminiamo è lunghissima  ed il sentiero un continuo saliscendi. Cominciamo ad essere tutti stanchi e poi sempre più stanchi. L’obiettivo della giornata è il villaggio di Charka Bhot  ed il fatto di trovare del cibo abbandonate ed uno pseudo letto dove dormire ci porta a voler raggiungere il paese per la notte a tutti i costi.

Arriviamo alle 16 dopo 9 ore di cammino, alloggiamo in una lodge che Ron definisce “medieval style” ma a noi sembra una reggia. Ci godiamo il caldo fuoco della cucina osservando i preparativi per la cena sorseggiando un tè fumante seduti su tappeti di lana di yak. Le donne, vere padrone della casa, hanno lunghi  capelli corvini raccolti in trecce sinuose, al collo portano vistose collane di turchese e corallo rosso che contrastano con i colori scuri dei loro abiti lunghi fino a terra. Cucinando hanno movenze secolari  in totale armonia con ogni singola parte della loro cucina e guardarle regala pace.

 

2 novembre trek giorno 8

Al mattino ci godiamo il paese con i bimbi che ci stanno atttorno curiosi e mocciosi. Ci incamminiamo verso le 9 ,oggi dobbiamo affrontare un altro passo oltre i 5000 metri ma sappiamo che sarà l’ultimo. Usciamo dal paese attorniati da bandiere di preghiera e Chorten ad ogni angolo; quanta spiritualità aleggia nell’aria e quanta serenità traspare da queste genti povere ma con gli occhi pieni di ricchezza. La cultura Tibetana dovrebbe essere esempio per l’umanità ed invece stà per essere spazzata via dai morsi selvaggi del drago cinese.

Usciti dal paese seguiamo il sentiero che taglia in diagonale la dorsale della montagna, abbandoniamo la valle del Bheri per salire verso nord. Il sentiero è molto lungo e ci costringe  a continui sali scendi,  verso le undici vediamo finalmente il passo in lontananza, acceleriamo il passo ansiosi di raggiungerlo, alle 13,30 siamo al passo e l’altimetro segna 5050.

Ci godiamo il momento sapendo che da ora non ci resta che scendere, seguire la forza di gravità ancora un po’ a piedi e poi con i nostri kayak. Dopo il passo incontriamo subito le sorgenti del Langu Kola che è un piccolo rigagnolo semi ghiacciato ma sappiamo che domani sarà in grado di far galleggiare i nostri  kayak. Arriviamo al campo alle 16, una serata serena, siamo tutti rilassati e felici per l’imminente termine del trekking. Festeggiamo il compleanno di Raphael con una piccola bottiglietta di whisky con il quale rinforziamo il tè serale. Una torta con un biscotto e 4 candeline fatte con i fiammiferi a festeggiare il neo quarantenne.

 

3 novembre Trek giorno 9

Siamo ansiosi di metterci in marcia, ansiosi di vedere il nostro fiume crescere. Partiamo alle 7 seguendo il corso del Langu Kola  che si divide in tanti rigagnoli che ci costringono a diversi guadi per andare a trovare il sentiero  adatto. Siamo costretti un paio di volte  a toglierci le scarpe ed immergergi fino alle ginocchia nell’acqua gelida ma nessuno si lamenta. Alle 11 arriviamo in una radura. Il fiume scorre molto piccolo tra prati ramati. Io, Ron e Raphael ci guardiamo e anche se l’acqua è poca decidiamo che questo sarà il nostro punto di imbarco. Il mio altimetro segna 4600 metri sul livello del mare.

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Qui finisce il nostro trekking, un trekking molto duro, intenso, impegnativo dove a momenti ho pensato di non farcela. E’ stata sicuramente la parte più dura della spedizione perché nessuno di noi è un alpinista e nessuno di noi era abituato a queste quote, ma siamo qui, ce l’abbiamo fatta. Ora ci aspettano 550 km  e 4400 metri di dislivello da fare in kayak, ora diventeremo canoisti e questo ci riempie di gioia perché è quello che sappiamo fare. Sono stati giorni pieni di fatica ma anche di scenari mozzafiato immersi in un ambiente unico che ha riempito i nostri cuori. Lasciamo la montagna per immergerci nel nostro elemento e fremiamo all’idea del primo colpo di pagaia.

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Francesco Salvato

Thanx to:

Zero Attivo, Teva, Stohlquist, Select, HF, Gravità Zero, Garmin.

5 risposte a “LANGU KOLA KAYAK EXPEDITION (I° Parte: il trekking)

  1. grande Checco ,ci fai sognare quei posti leggendo i tuoi resoconti….mi auguro che oltre le foto seguiranno filmati…..in bocca al lupo 😉

  2. Grazie Checco per l’emozione che lasci nel cuore di chi ha la fortuna di leggere il tuo racconto. Attendo la seconda parte…un abbraccio Nando

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